Chiesa, preti e comunità. Superamento di forme e modelli superati.
- Gabriele Semeraro
- 26 gen 2021
- Tempo di lettura: 5 min
Facciamo l'esercizio di prendere le distanze da ciò che crediamo sia la chiesa e da ciò che appare. Potrebbe sembrare un esercizio facile dato l'alto numero di non credenti, ma non è così perché anche chi non crede ha costruito dentro di sé un'immagine di che cos'è la chiesa.
Bisognerebbe provare a fare tabula rasa e avvicinarsi a questa realtà come se si venisse da un mondo in cui essa non esiste.
Forse si riuscirebbe a gustarne le potenzialità, la bellezza e si resterebbe incantati dalla carità. Allo stesso tempo si rimarrebbe turbati dal marasma di quella umanità negativa che è presente in tutti gli ambiti della vita.
C'è chi pensa che siamo nel tempo del declino, chi pensa che siamo al momento della fioritura e chi pensa che non abbia più senso una realtà religiosa e una struttura come questa.
Guardando più all'interno ci si accorgerebbe di comunità molto diverse tra loro e a volte in preda ad una schizofrenia notevole.
Troppi riferimenti all'interno e troppi all'esterno, troppi valori contrastanti e incapacità di puntare a poche cose essenziali.
Le comunità, anche le più virtuose, non riescono a uscire da un modello pseudo-familiare e patriarcale che non lascia spazio ad un reale cambiamento.
Spesso anche i preti più progressisti si ritrovano incastrati in una struttura ecclesiale incapace di un reale cambiamento interiore.
Avvicinandosi si vedrebbe comunità, anche le più virtuose, poco mature.
Le comunità sono "pretocentriche" anche quando il prete manca…
Lo sguardo spesso non è rivolto al futuro, ma al passato quando c'erano tanti preti o almeno quando ogni comunità aveva il proprio. Spesso la lamentela e la tristezza sembrano dominare.
Ma le dinamiche sono sempre quelle dov'è c'è uno che comanda e gli altri lo tirano all'occorrenza.
Ci sono realtà dove si oscilla dall'autorità paterna incontrastata su tutto alla totale anarchia, ma difficilmente si riesce a entrare in una dinamica reale di comunità che condivide.
Per struttura economica e civile c'è un referente unico che, di solito è il prete, e come mentalità si tende comunque a vederlo come un padre dal potere assoluto.
Dicevo che anche nelle comunità più virtuose si potrebbe vedere la stessa dinamica tant'è che nel momento in cui cambia il sacerdote, si torna ai vecchi costumi... se non totalmente, parzialmente.
Spesso le unità territoriali o unità pastorali tendono a riproporre questo modello di gestione su larga scala causando danno su danno.
Negli ultimi anni la chiesa spesso si è spostata verso un modello di fraternità presbiterale intesa come vita comune. Questo modello, quando scelto e concordato, può effettivamente essere utile, ma in generale rischia di essere assolutamente dannoso e aggiungere alla fatica pastorale anche uno stress ulteriore.
Il problema fondamentale dal punto di vista umano è proprio il modo in cui si guarda: alla chiesa, al prete e alle comunità.
Oggi si fa tanto parlare di sinodalità. Ma che cos'è la sinodalità? Perché a volte potrebbe sembrare una forma di democrazia mentre altre una riproposizione di modelli monarchici ripuliti per sembrare "politicamente corretti".
La sinodalità non è democrazia e non è monarchia, ma potrebbe essere assimilata a una sorta di forma intermedia il cui cuore è la condivisione degli intenti.
Questo permetterebbe, forse, una condivisione con la comunità delle gioie e delle fatiche, anche nelle comunità territoriali più vaste.
Per poter giungere a comunità più mature, consapevoli e anche autonome, è necessario passare per la fase della responsabilizzazione delle realtà. Non è necessario il prete onnipresente, ma che compia il suo ruolo di coordinazione, verifica e controllo come un padre saggio che sa fidarsi.
Ogni comunità dovrebbe avere delle persone scelte che vivano profondamente il proprio laicato (non che scimmiottino i preti oppure che abbiano forme clericali), figure da mettere a capo delle comunità. Questo richiede fiducia, maturità e capacità di puntare alle cose essenziali.
Queste figure, che siano singoli/le o famiglie, a volte anche suore, potrebbero ridare vita alle chiese e alle canoniche prendendosi un pezzo di responsabilità.
Il prete potrebbe essere sgravato di molte cose e potrebbe tornare a dedicarsi fondamentalmente alle relazioni e alla predicazione con un po' di supervisione delle varie realtà.
L'obbligo di coinvolgere, almeno un paio di volte l'anno, l'intera comunità attraverso assemblee pubbliche potrebbe essere un ulteriore passo avanti.
La valorizzazione del ruolo femminile e di tutte quelle categorie, molto presenti nelle nostre Comunità ma di nascosto, cosiddette "minoritarie" allargherebbe il respiro umano e spirituale delle stesse.
Se vogliamo guardare al vangelo con autenticità non possiamo riproporre modelli fallimentari: che si tratti della prima comunità di Gerusalemme o che si tratti del modello ecclesiale attuale.
In compenso possiamo imparare insegnamenti buoni che derivano da queste esperienze.
Se è vero che le strutture gerarchiche, le strutture fisiche e il modello amministrativo è difficile da mutare, si può però trovare forme di condivisione e di delega reale.
Inoltre sarebbe importante liberarci da certe forme rigide... condivisione di intenti non è e non può essere uniformità su tutto.
Si condivide gli intenti e le finalità, ma la forma deve essere libera di cambiare in base alla realtà, a chi la sta gestendo e alla storia di quel luogo.
Questo implica che alcuni contenuti, alcune forme e alcuni modelli non siano applicabili e non siano uniformi in tutte le realtà con anche il rischio di perdere letteralmente qualche contenuto.
Non sappiamo se la chiesa del futuro sarà come quella di oggi, ma speriamo che sia ancora capace di testimoniare Gesù e il suo Vangelo nel mondo nella normalità della vita e senza rigidità ideologica.
Il punto centrale di svolta non è la perdita dell'identità, ma l'evoluzione della stessa. Sicuramente il punto centrale su cui bisogna lavorare è l'evoluzione della figura sacerdotale e della comunità di base.
Questi due concetti sono interconnessi e sono faticosi da riformare perché hanno radici antiche nella nostra cultura e nella nostra mentalità.
Il desiderio e il sogno dovrebbe essere tornare ad essere Chiesa della normalità e della quotidianità.
Gesù nel Vangelo vive la normalità, i grandi miracoli li compie nella quotidianità della vita. Le battaglie ideologiche sono causate da altri che pretendono di vivere in un mondo fatto di idee e di teologia, ma dimenticano di vivere e di adattarsi alla realtà.
La schizofrenia sarebbe risolvibile tornando su un piano di vita reale, fatto di problemi reali e di condivisione dei compiti.
Il pastore è un essere umano che vive la tensione tra molte cose e rischia più di tutti la schizofrenia umana e spirituale.
La soluzione non è gravarlo anche con forma di fraternità presbiterale che scimmiotta ulteriormente la famiglia, ma permettendogli di entrare nella normalità della vita umana e spirituale della sua comunità.
Una postilla importante da fare è questa... bisogna che le comunità siano responsabili dei proprio pastori e non succubi.
Il pastore ha bisogno di essere incoraggiato e rimproverato anche da chi lo segue. Questo non vuol dire che la comunità prende il dominio sul pastore, ma vuol dire che ama il suo pastore e quando questo devia… la comunità lo recupera.
La complessità non svanirà mai e le soluzioni definitive non esistono, ma una cosa è certa: il Vangelo è dinamico e vive nella vita. La chiesa, pur nella sua struttura monarchica e sinodale, deve mantenere la medesima elasticità per perseguire la suprema legge che è "la salvezza delle anime" e della persona a cominciare da ora.
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