Seconda domenica di Avvento anno B
- Gabriele Semeraro
- 9 dic 2023
- Tempo di lettura: 4 min

Il tema per tutti noi è il tema del viaggio, dever uscire da noi stessi alla scoperta di ciò che ci abita.
Per scoprire ciò che ci abita dobbiamo lasciare la nostra comfort zone, dobbiamo lasciare le nostre idee e dobbiamo lasciare tutto ciò che appesantisce il nostro cammino.
Come già detto domenica scorsa Isaia è un testo difficile da interpretare perché un testo affettivo, perché vive della dimensione affettiva della fede.
Noi non vogliamo perdere la conquista di domenica scorsa sulla dimensione affettiva e non vogliamo ancora abbandonare un linguaggio laico perché non siamo pronti.
Per intraprendere il viaggio della fede dobbiamo partire da alcune consapevolezze:
La storia di Cristo e la storia dei discepoli è una storia apparentemente fallimentare: muoiono tutti;
Il camminare, l'usciere da sé, presuppone una meta, ma questa meta non è definita da noi e noi non ne conosciamo la via. Ci vuole qualcuno che ci guidi: una stella, un profeta, un sacerdote o il Signore stesso;
Questa camminata in cui ci conduce il Vangelo non è una camminata di piacere, ma è fondata sulla necessità cioè su un bisogno e una sofferenza;
Questa camminata certamente porta a una liberazione, ma questa uscita da sé richiede necessariamente l'accompagnamento dei pastori ordinati, della comunità e di altri che hanno già battuto questo sentiero.
Ci è stato detto oggi ”consolate, consolate il mio popolo”.
Il profeta sembra suggerire la necessità di uscire a consolare qualcuno, quel qualcuno è il popolo, ma insinuando che già è stato preparato tutto per far sì che il popolo ritrovi se stesso.
Qualcuno annuncia un lieto evento che è per tutti, un evento che va annunciato con forza a tutti quanti perché riguarda tutti. L'annuncio ha come contenuto che “il Signore in persona viene ad incontrarci” e a radunarci quasi fossimo le sue amate pecorelle.
Il Vangelo ribadisce, partendo proprio da un passo del profeta Isaia, che è stato inviato qualcuno come messaggero a portare la buona notizia.
Tutto il Vangelo e tutta la prima lettura vive di movimenti.
Dio si muove uscendo da se stesso e viene verso di noi facendosi uomo, il profeta è chiamato a uscire dalla propria comodità per annunciare questa novità, Giovanni Battista esce dalla comodità della città e si reca in luoghi scomodi per lui col fine di annunciare l'arrivo del Signore.
Il profeta Isaia e Giovanni Battista non hanno chiaro tutto sulla loro missione, ma man mano che escono da sé stessi e vivono nella realtà scoprono sempre di più la portata della propria missione… di più, scoprono se stessi.
Avete mai notato che molti nomi che nella Sacra Scrittura troviamo attribuiti a personaggi biblici contengono nel nome stesso la loro missione? Uscendo da se stessi e vivendo si scopre la propria reale natura, il proprio nome, la propria identità.
Non è portando la gente qua dentro che scopriremo chi siamo, ma uscendo noi fuori scopriamo realmente la nostra identità.
Uno dei grandi mali della nostra chiesa è che è diventata non semplicemente luogo di rifugio, di carità, di cammino, di affetto, di fede e di apprendimento, ma fuga dal mondo, dai problemi (della vita, della salute e psicologici).
La chiesa e la vita spirituale non possono essere una fuga dalla realtà, un ripiego per non pensare ai nostri problemi.
Guardate che spesso i nostri seminari, le nostre parrocchie, non sono stati luoghi di crescita, di cammino, ma fuga dei disagiati e scusa religiosa per non camminare.
Luoghi apparentemente pacifici che perpetuano, in modo subdolo, una grande violenza umana e spirituale.
La Parola di Dio di oggi ci promette certamente un “Dio con noi”, un compagno di strada, ma ci dice anche che c'è una fatica necessaria.
La fatica è quella di fare strada cioè di stare coi piedi ben piantati nella realtà in cui ci troviamo, nella nostra realtà oggettiva e laica.
Ci sono delle strade e dei sentieri che sono da raddrizzare: sono i sentieri della nostra intransigenza, della nostra inaccoglienza, della nostra bigottagine, del nostro fuggire continuamente dalla realtà laica, ecc…
O si riparte dalla strada, dalla vita reale, o non si riparte affatto. O si è cristiani della realtà quotidiana o non si è cristiani.
Un ultimo accenno a proposito di quello che ho appena detto ce lo dà proprio la seconda lettura nella persona di Pietro che dice: ”dato che tutte queste cose dovranno finire in questo modo, quale deve essere la vostra vita nella santità della condotta e nelle preghiere, mentre aspettate e affrettate la venuta del giorno di Dio, nel quale i cieli in fiamme si dissolveranno e gli elementi incendiati fonderanno”.
Pietro sta parlando del secondo ritorno di Cristo e della fine, ma colpisce che come elemento primo, di una buona vita, non mette la preghiera e non mette la vita ecclesiale, ma la santità della condotta cioè il modo di vivere la quotidianità. Essa è associata alla preghiera, ma essa segue la condotta di vita e non la precede. Pietro ha un concetto di vita spirituale ebraico, un concetto molto sano, dove la vita dice la fede e la preghiera la segue.
È la vita che ci dice dove andare e non le nostre manie religiose, è la vita che precede la spiritualità e la teologia, ma allo stesso tempo le dovrebbe determinare.
È tempo di fare strada, è tempo di mettere le mani in pasta se vogliamo attendere autenticamente il Signore che ogni giorno viene nella nostra vita.
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